A chi non è mai capitato di chiedersi:
‘’Chi sono io?’’
Forse a nessuno, mentre a qualcuno in più sarà successo di eludere le risposte, come si distolgono gli occhi da uno specchio che emana troppa luce.
Socrate diceva che è la profondità di una domanda a determinare la profondità d’animo: io proverò a rispondere in maniera leggera ed un po’ provocatoria.
Anzitutto, se mi chiedo chi sono, io sono colui che si sta ponendo la domanda.
E chi cerca di rispondere?
Sono sempre io, o è un altro ‘’me stesso’’?
Nossignori, non siamo di fronte ad un vizio di mente, almeno spero!
Essendo un meditante ho sperimentato che nella pratica c’è un ‘’io’’ che fa qualcosa, entrando in contatto con il respiro o le sensazioni del corpo, ed un ‘’io’’ che osserva; ed il fine della pratica meditativa è quello di immedesimarsi, con il tempo, con la pura osservazione.
Intorno ai 30 anni ho iniziato ad appassionarmi di teatro, e ad interpretare personaggi da portare in scena: alle prime armi le intenzioni erano annacquate, e più che Petruccio della Bisbetica domata, ero sempre io, che volevo impressionare la platea declamando con il tono roboante ed ampolloso del personaggio.
C’era più esteriorizzazione, che partecipazione alla sua vita interiore.
Il grande Stanislavskij mi avrebbe preso a pedate nel sedere, ma il tempo è un ottimo maestro e non sempre uccide i suoi allievi: così, ad una fase più evoluta del mio percorso artistico, sono arrivato autenticamente a percepire (o almeno, così mi è sembrato) di entrare nei panni di qualcuno, di pensare e di sentire come immaginavo facesse il personaggio.
Da allora, la mia percezione di identità personale ha cambiato forma: l’idea di una persona intesa come sé unico, complesso e più o meno stabile, è trascolorata in quella di una serie di personaggi armoniosamente integrati, che hanno tutti molto in comune, ma che hanno anche le loro unicità.
Non a caso, il termine ”persona” deriva il suo etimo proprio dalla maschera teatrale.
Harry Stuack Sullivan diceva che l’idea di un’identità personale fissa, è la madre di tutte le illusioni.
Oggi mi piace pensare non tanto a un ‘’Io’’, ma a delle parti di me, che condividono le stesse pulsioni corporee, le medesime memorie e desideri, ed hanno molte tendenze in comune.
Ma non sono completamente identiche.
Come io che facevo lo zio di Amleto, non ero completamente identico al personaggio che va a lavorare o che conciona con gli amici; forse sarò influenzato dal mio percorso teatrale, ma questo mi capita di osservarlo anche negli altri.
Ora, non mettetevi paura: io credo che in me convivano, al momento, 7 personaggi!
E credo che ciascuno, cosciente o meno, abbia i propri.
Questi incarnano epoche diverse della mia esistenza, e sono tutti ancora vivi, bene intersecati nel processo di continuità della coscienza.
Il vero dilemma è: il regista, quell’io centrale, o nucleo, o come lo si voglia chiamare, sa farli dialogare?
Sa integrare nel suo parlamento interiore quelle parti di sé che, come diceva Jung, sono delle parti ombra?
Quei tratti meno ‘’vendibili’’ che tutti abbiamo?
Solo integrandole, e non scacciandole, potremo armonizzarle, altrimenti esse diverranno forze eversive che usciranno dal ‘’Sistema’’ a seminare bombe, brigate rosse o terroristi neri dell’io pronti a minacciarne l’incolumità.
Esiste un’antica favola cherokee (variante della versione più nota) dove il vecchio saggio dice al nipote:
‘
’’Vedi, dentro di noi infuria una lotta, una lotta terribile tra un lupo bianco e un lupo nero: Per far vincere il lupo bianco, tu non devi nutrire soltanto lui, sennò l’altro si esacerberà, potrebbe pedinarlo ed ucciderlo, ma devi nutrirli entrambi: soltanto così, il lupo bianco potrà vincere davvero’’.
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Va bene, ma quindi alla fine, chi sono io?
Sono il regista che dirige delle parti di me, che riconosce ed integra anche le energie yin, che nutre il lupo nero.
Si ma.. chi è che lo nutre?
Ho capito: la parte di me analitica e pignola vuole mettersi in poltrona, ma adesso il regista sono io.
”Mi hai stancato” – le dico – ”torna in camerino, per oggi hai finito qui”.
Pochi istanti, e spengo le luci anche io, ed è l’unica cosa da fare, perché invero, chi si è, non può essere scritto nemmeno in 1.000 pagine, ma può essere soltanto sentito e realizzato.