Qualche notte fa ho guardato per l’ennesima volta Full Metal Jacket, a mio avviso il film di guerra più lucido e spietato mai concepito, che per circa la ventesima volta mi ha tenuto incollato allo schermo, dai primi dialoghi grottescamente poetici del sergente Hartman, fino alla marcia di Topolino cantata dai soldati nello scenario di devastazione che si lasciavano alle spalle, una delle scene più geniali e surreali dell’intera storia del cinema.
Un manifesto spietato del delirio bellico che fotografa con sguardo crudo le crepe dell’animo umano.
Ogni visione di questo capolavoro, per quanto mi riguarda, non è mai uguale alla precedente, ed ogni volta una scena, un flash, un particolare che mi balza magari agli occhi sotto una prospettiva nuova, mi inducono a riflessioni su un diverso aspetto della natura umana, messa in risalto dal maestro Kubrick con una brutalità e un realismo senza eguali.
La domanda più densa di significato a cui stavolta mi ha condotto il film, è la seguente:
Si può essere felici, quando si cerca di plasmare se stessi in una figura ideale, e si segue la via del conformismo?
La tragica storia del soldato “Palla di lardo”, che incarna il dramma di chi cerca disperatamente di adattarsi a uno scopo per cui non è nato, e finisce per distruggersi, sembra raccontare che una ricerca del genere può facilmente condurre alla sofferenza e all’autodistruzione.
Fin dall’inizio del film, il soldato si distingue dagli altri giovani marines, perché è goffo, lento e totalmente inadatto al rigore e alla brutalità della vita militare, ma la pressione costante di Hartman e il bullismo dei suoi compagni lo conducono a un doloroso percorso di trasformazione.
Il suo unico scopo diventa quello di adattarsi all’immagine ideale del marine forte, impenetrabile, senza emozioni, per guadagnare la dignità e il rispetto negati.
Ma era davvero il suo scopo?
Palla di Lardo raggiungerà questo obiettivo, quando sembrava francamente impossibile, ma nel processo per perseguirlo diventa qualcuno di diverso, rinnegando la sua vera natura; in una delle scene più potenti, lo vediamo mentre fissa il vuoto, sorridendo mentre tiene in mano il fucile con cui, pochi istanti dopo, ucciderà Hartman e poi se stesso.
Scosso da quelle immagini come se le stessi osservando per la prima volta, per un attimo ho pensato: c’è molta differenza tra Palla di lardo e chi lotta strenuamente per raggiungere fama e ricchezza, o per costruirsi una vita fatta a misura sulle aspettative di qualcun altro?
No, devo aver pensato, l’epilogo può essere lo stesso, anche se non sarà un fucile M14 a sparare il colpo, ma un moto interno e sordo di ribellione: una malattia, oppure un senso tragico di incompiutezza.
Un pò prima del conflitto del Vietnam, Fitzgerald aveva scritto Il Grande Gatsby, dove l’omonimo protagonista spende la sua vita a costruire un’immagine di sé che possa attrarre Daisy, l’amore della sua giovinezza.
Pure in questo caso, la tentazione di annullare la propria identità per un successo illusorio, conduce ad un finale tragico: anche se la scalata sociale di Jay Gatsby sembra essere un trionfo, che gli consegna fama, ricchezza e ammirazione, il suo successo si rivela essere un guscio vuoto. Daisy, il simbolo del suo sogno, lo abbandonerà e lo condurrà alla rovina, lasciando il grande Gatsby prigioniero di una versione di sé che non lo rappresenta, e vittima di un’illusione letale.
Emerge pertanto una verità paradossale: il desiderio di affermarsi attraverso un’immagine ideale spesso conduce all’alienazione.
Nell’odierna cultura della performance, in cui gli ideali di successo personale e professionale vengono prepotentemente indotti dall’esterno e misurati con un’uniformità brutale, molte persone sacrificano la propria autenticità per inseguire obiettivi che sembrano promesse di felicità. Tuttavia, adattarsi a un ruolo che non rispecchia la propria vera identità crea una dissonanza insopportabile, in cui alla lunga il progresso verso il successo non porta pace, ma aumenta il senso di vuoto.
La storia di Palla di lardo è un monito per chiunque insegua un’idea di successo che, anziché completarlo, lo aliena dalla propria natura. La sua fine tragica suggerisce che il vero successo non consiste nell’adempiere a un ideale esterno, ma nel rimanere fedeli a sé stessi. Non è il potere, o un qualunque ”grado” a determinare il valore di un individuo, ma la capacità di coltivare una vita autentica, che riflette le proprie aspirazioni profonde.
Conoscersi, comprendere il proprio scopo, ed impegnarsi ad adempierlo.