Questa mia ultima settimana è stata abbastanza travagliata.
Sono stato vittima di una pesante influenza i cui primi sintomi si sono manifestati proprio durante il primo giorno di primavera, per poi esplodere alcuni giorni dopo, senza peraltro che io sia ancora riuscito a debellarla.
Scoppiare di poca salute nel mese di Marzo, è un tema ricorrente della mia vita, dai primi compleanni che dovevo passare imbacuccato a casa perché mi colpivano febbroni da cavallo, ai tempi del liceo ed ai lunghi pomeriggi trascorsi al letto con le tempie schiacciate come noci da assalti violenti della sinusite.
Solitamente, era sempre metà o fine Marzo.
Durante questi giorni di debolezza, solitudine ed umore grigio, mi è capitato di fare una scoperta un po’ triste: quanto sia diventato difficile, da parte dei propri conoscenti anche prossimi, ricevere un semplice “Mi dispiace che stai male, buona guarigione” o sentirsi chiedere con sincerità: “Come stai?”.
Per conoscenti anche prossimi, non intendo evidentemente un genitore o il partner, quanto piuttosto quell’alveo di conoscenze con cui si interagisce più o meno frequentemente per motivi personali, professionali o di svago.
Eppure queste persone, non mancano di confezionare con ineffabile tempismo, i canonici auguri di buon Natale o buona Pasqua.
Da cosa può dipendere tutto ciò, rispetto a cui nemmeno io – ci mancherebbe – posso ritenermi immune?
Relazioni povere di spessore?
Generale e progressivo decadimento dei valori umani?
Sì e no.
Intendo dire: connessioni umane non così profonde ed assenza di empatia (qualcosa di cui sempre più si parla, e sempre meno ce n’è) possono avere il loro peso, ma io credo soprattutto che agli esseri umani di oggi manchi tempo.
E’ come se fossimo diventati tutti come il coniglio bianco di Alice nel Paese delle meraviglie, che sbattendo i grandi occhi rosa diceva tra sé e sé: ‘’Povero me, povero me, arriverò troppo tardi’’.
Fino a quando trasse un orologio dal taschino del panciotto, e dopo avergli dato una furtiva occhiata, affrettò il passo ancor di più.
Viviamo in una società ‘’cronofaga’’, che divora le ore sul quadrante dell’orologio, mentre il tempo vola via, diventando insieme tesoro irraggiungibile ed ossessione permanente.
Per cui la fretta, sembra essere il motto di troppe persone che ci circondano, combriccole di conigli bianchi timorosi di essere puniti dalla duchessa.
Tutti, più o meno, siamo alla ricerca di modi per ottimizzare il nostro tempo, per sfruttarlo al massimo, per fare di più in meno tempo.
In questo modo si generano, a mio modo di vedere, due conseguenze abbastanza paradossali.
La prima è che facciamo di tutto per aumentare la nostra produttività ed avere più tempo, e quando anche riusciamo nel nostro intento, quasi mai siamo in grado di godere di quel tempo in più che ci siamo ricavati, ad esempio spendendolo in maniera intelligente.
Tutti vorrebbero avere più tempo, ma pochi sapremmo davvero cosa farne.
La seconda conseguenza è che la frenetica ricerca di efficienza, che dovrebbe avere tra le sue ragioni di essere anche quella di una maggiore interdipendenza tra gli esseri umani, comporta invece come costo la perdita di empatia e l’indebolimento delle relazioni umane autentiche.
La prossima volta che sentiremo il ticchettio dell’orologio accelerare il nostro passo, fermiamoci un attimo.
Rallentiamo per guardare negli occhi chi ci sta accanto, oppure chi si trova in un momento di difficoltà, e chiediamo con sincerità: “Come stai?”.
Forse potremmo scoprire che è proprio in questi piccoli gesti di cura ed attenzione verso il prossimo, che risiede il significato più prezioso del tempo ben speso.