Uno dei modi in cui ho sempre amato definirmi, è quello di “edonista”, ossia di persona incline al piacere ed al godimento immediato, anche se questa descrizione di me stesso mi sembrava riduttiva rispetto alle mie attitudini alla riflessione ed alla contemplazione dei più profondi benefici dei piaceri a lunga scadenza.
Navigando sulle pagine del sito “Upag” (una parola al giorno, sito a cui sono iscritto da un paio d’anni), quotidianamente impegnato nella divulgazione del potenziale più nascosto delle parole della nostra lingua, ho potuto approfondire i più celati significati di questa parola ed affascinante concetto, riuscendo ad indossarlo meglio sulla mia pelle.
Argomenta infatti Upag, da cui prendo spunto per l’articolo, che edonista, oltre a significare gaudente e libertino, significa anzitutto “epicureo”’. Ed in effetti, basta avventurarsi in una ricerca in rete sull’edonismo, che si dipanano abbondanti i riferimenti ad Epicuro. A prima vista, qualcosa sembra non tornare, dato che uno dei significati con cui più comunemente viene intesa la filosofia epicurea ha a che fare con una appartata e frugale tranquillità.
Per scoprire meglio l’edonismo allora, conviene sviscerare i nessi che lo legano al filosofo greco.
Epicuro fondò ad Atene la sua scuola nota come “Giardino”: in realtà, più che una scuola era una comunità filosofica aperta a chiunque, compresi donne e schiavi, in cui tutti erano trattati come amici.
Per Epicuro, lo scopo della filosofia era essenzialmente terapeutico, consistendo nel liberare gli esseri umani dalle loro paure: gli dèi, la morte, l’infelicità e il dolore. Per scacciare ognuna di esse, Epicuro formulò il suo tetrafarmaco: temere gli dèi non ha senso perché essi non si interessano dei casi umani, altrimenti avrebbero eliminato il male dal mondo; la paura della morte e quella del dolore vengono parimenti liquidate con altrettanta semplicità: mentre siamo in vita, la morte non c’è, e quando arriva lei, non ci siamo noi; il dolore, invece, se è intenso dura poco, se dura molto si affievolisce col tempo.
Riguardo alla felicità, Epicuro afferma che essa va identificata col piacere (quindi, tecnicamente, è un edonista); ma i piaceri, puntualizza, non sono tutti uguali: ci sono quelli naturali e necessari (come mangiare e bere), la cui mancata soddisfazione procura sofferenza; quelli naturali e non necessari, come mangiare cibi raffinati; e infine quelli non naturali né necessari, come il desiderio di gloria e onori. La saggezza consiste nel capire che solo i piaceri del primo tipo sono da perseguire: gli altri due, alla lunga, causano solo turbamento e sofferenza. Il piacere che rende felici altro non è che assenza di dolore fisico (aponìa) e di turbamento dell’anima (atarassìa); non un piacere dinamico, bensì statico, all’insegna della serenità d’animo e dell’accontentarsi di ciò che si ha.
La felicità di Epicuro era quella del suo tempo, di quell’età ellenistica dove da collettiva diviene soprattutto privata (da “idiota” in senso etimologico, che proviene da “idios“, proprio), e che elevava a virtù il distacco forzato da una realtà sulla quale era diventato impossibile incidere.
Ecco allora che il sincretismo con la filosofia epicurea, nobilita l’edonismo rispetto alla sua più comune accezione: non più frivolezza, e sfrenato e fatuo materialismo, ma perseguimento di un piacere non per forza distante dalla misura, sano individualismo, introspettività ed allegra condivisione.