Passeggiando sul lungomare poco prima del tramonto, i miei passi hanno incrociato il travaglio di un povero gabbiano, prossimo probabilmente al suo ultimo volo.
C’era un nugolo di spiaggianti, tutto intorno, a partecipare a quella dignitosa agonia: chi provava ad assestare qualche leggero colpo sul dorso per stimolargli il volo, chi si interrogava se fosse ancora possibile sottrarlo al suo destino per mezzo di cure specializzate.
Io stesso sono andato a prendere del pane che tenevo in uno zaino, staccandone un pezzo e porgendogli vicino al becco minuscoli bocconi, ma non era servito.
Nonostante il discreto vento e le piccole spinte che gli provavamo a dare, lui non voleva più volare, e non voleva più nemmeno mangiare.
Il gabbiano, evidentemente, aveva deciso di lasciarsi morire.
Questa immagine ha fatto ondeggiare nella mia mente un mare di associazioni, a partire dalla meravigliosa poesia di Baudelaire sull’albatros, una delle poesie che amo di più.
L’albatros è un uccello marino di grandi dimensioni, dalla maestosa apertura alare, in cui Baudelaire trasfigurava il poeta e la maestosità della sua sensibilità, in contrapposizione alla grettezza morale dell’uomo comune. Quando l’albatro viene catturato dai marinai e fatto accasciare sul piccolo veliero, che simboleggia l’angustia della vita di tutti i giorni, questo re dei cieli appare goffo e comico.
“Poeta, anche tu abiti nel cuore della folgore, e sfidi i dardi, e sopra le nuvole t’accampi: esule sulla terra, tra i dileggi del volgo, nell’ali di gigante ad ogni passo inciampi!”
Perlustrando bene la soma del gabbiano, mi sono accorto che una delle sue grandi ali era malamente ferita; e se non fosse riuscito a riprendere il volo perchè quell’ala cosi’ grande era un fardello troppo pesante da slanciare? E se fosse stato un passerotto? Magari ci sarebbe riuscito..
In quel momento, il mio pensiero ha abbracciato tutti gli emarginati ed i diseredati, coloro che rimangono impantanati in torbidi stagni travolti dalla corrente della solitudine e di una esistenza senza avvenire, a volte proprio a causa delle loro ali troppo grandi.
Credo che dietro alla scelta di diventare senzatetto a causa di una delusione d’amore o di consumarsi buco dopo buco ci sia spesso un problema di eccessiva sensibilità, di una permeabilità agli eventi della vita, tale da sentirsi senza pelle. Ci si rinchiude dentro se stessi ed il proprio mondo, percependo l’altro come minaccia.
Anche questo gabbiano ha passato tutta la vita a tenere distantissimi gli esseri umani (i gabbiani tra i volatili “urbani” sono tra i più antisociali), poi in punto di morte ha scoperto che quegli esseri non erano cosi’ minacciosi, e che avrebbero voluto aiutarlo.
Diverse persone dotate di sensibilità si autodenigrano, ed arrivano ad invidiare chi vive con più superficialità e “sente” meno le cose della vita, o le ferite inferte dagli altri. Per imparare a canalizzare la propria sensibilità ed a tramutarla in energia e potere occorre un cammino di consapevolezza, arduo ma affascinante ed in grado di far sperimentare un’esistenza infinitamente più ricca e libera.
Libera dal male fatto a se stessi, libera dall’illusione di tutta la vita del gabbiano, dell’altro come predatore.
Un articolo denso di profondità e di spunti di riflessione. Grazie <3