Oggi, 25 Aprile, voglio scrivere di liberazione, intesa non in senso politico ma sotto una luce interiore.
Esistono liberazioni che si ottengono con le insurrezioni, con le bombe, e che culminano nella resa del nemico.
Ma per liberarci interiormente, esiste davvero una guerra da combattere?
Secondo il moderno sentimento comune, probabilmente sì.
Tutti abbiamo qualcosa da cui liberarci, che siano le sfide con cui quotidianamente la vita ci mette alla prova, o le sbarre di prigioni invisibili attraverso cui ci rendiamo carcerieri di noi stessi.
Poiché mi piace molto leggere ed entro spesso in libreria, mi capita sovente di imbattermi in titoli che raccontano di come sconfiggere l’ansia o la rabbia, magari in 7 giorni, rappresentandoci dei nemici esterni od interni alla stregua di avversari da combattere e disarmare.
Più raramente viene veicolato il messaggio, che è possibile liberarsi da qualcosa che ci affligge, non combattendoci contro, ma attraverso un processo di comprensione e pacificazione.
Eppure, i più grandi maestri della storia umana, si impegnarono a trasmettere proprio quel tipo di messaggio.
Dice Gesù nel Vangelo:
‘’Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua’’.
E’ un invito ad accettare il dolore nelle sue varie forme, che pur facendo parte della vita umana, ci appare a volte incomprensibile, perché contrario al nostro desiderio di felicità.
Tutti gli esseri umani aspirano a raggiungere la felicità; ma la felicità non si ottiene quando si cerca sempre ciò che è più comodo e desiderabile, bensì quando si ama molto, anche quando l’amore comporta qualche sacrificio, e si vive intensamente malgrado le difficoltà.
E con questo cammino di liberazione dall’egoismo e dal nostro piccolo ‘’io’’ come centro di tutto il mondo, può iniziare una crescita in umanità, una conquista della libertà che realizza pienamente la propria individualità.
Anche Gautama Buddha nelle sue nobili verità parla spesso di dolore e sofferenza, e non ne parla come qualcosa da cui fuggire o contro cui combattere, ma al contrario come stati da attraversare: solo così il dolore può essere trasmutato, liberandoci dalle illusioni e dai condizionamenti.
In tempi più moderni, il Gandhi, detto anche il Mahatma, ossia la Grande Anima, ha pronunciato questa frase (che conservo gelosamente su una parete della mia stanza):
Molto spesso siamo occupati a risolvere, a sistemare cose o problemi, illudendoci che saremo felici soltanto se supereremo quell’avversità o realizzeremo talaltro desiderio.
Quasi mai però la vita ci presenta una condizione imperturbabile di assenza di problemi, e d’altro canto un’esistenza priva di sfide e di quegli aneliti e tensioni atte a misurarvici difficilmente sarebbe appagante.
La vita richiede sacrificio e responsabilità, ma in esse si può ugualmente trovare la bellezza e la gioia di esistere.
Alcune qualità dell’animo possono aiutarci nel nostro compito: la fede, laicamente intesa come fiducia, fiducia verso la vita e verso il suo fluire, e nel fatto che le cose vadano come devono andare, perchè rispondono ad un’armonia infinitamente oltre noi, e che tutte le sfide vengono apposta per insegnarci qualcosa e spronarci lungo un cammino evolutivo.
Questo significa anche, tornando alle nobili verità del Buddha, praticare più l’amorevolezza e meno gli attaccamenti, con cui il genere umano ha fatto della Terra un posto meno bello in cui vivere.
E significa anche che, oltre a non esserci un nemico da combattere, dovremmo essere proprio noi ad arrenderci a qualcosa di più alto.
Immagino, per un attimo, se esistesse un pianeta senza uomo e fosse possibile chiedere ad un’aquila “Che giorno è oggi?”, quale risposta potremmo ricevere; forse risponderebbe ”E’ il giorno che deve essere”.
Oppure, se fosse possibile chiedere ad una rosa se è preoccupata di sfiorire! Immaginerei una risposta piena di altrettanta armonia!
L’attaccamento eccessivo consuma questa armonia, così come sforzarsi di combattere senza fine contro ciò che non va o contro le proprie paure, in una rivalsa imperitura dove non potrà mai esserci vera pacificazione.
Ed infatti come seconda dote voglio parlare del coraggio, una virtù anch’essa fraintesa, ed inestricabilmente legata alla sfera militare e cavalleresca, ed a paradigmi di violenza ed impavidità nel mettere a repentaglio la propria incolumità fisica.
Sarebbe bello poter chiedere a Cristoforo Colombo se, avventuratosi sulle tre caravelle nel suo primo viaggio attraverso l’Oceano Atlantico, egli avesse avuto paura.
Forse scopriremmo che il coraggio dialoga spesso con la paura, e che non è assenza di paura, quanto assenza di paura di avere paura.
Altrimenti è stupida temerarietà.
Unendo i due termini che ne fanno parte, è il cuore che sa sentirsi a proprio agio, nell’incertezza dell’ignoto, nel fragore della tempesta sotto la quale si può continuare a danzare, e si possono scoprire terre sconosciute.