Una mattina di pochi giorni fa, mentre ancora un po’ assonnato ero in treno per raggiungere una destinazione di lavoro, stavo leggendo un interessantissimo libro, a metà tra il saggio scientifico ed il romanzo d’avventura, quando in un passo l’autore cita una specie di uccelli estinti, che portavano il curioso nome di “dodo”.
Poiché ne avevo solo un vago ricordo, e da sempre sono curioso di etologia, ho messo in pausa la lettura cercando di intrufolarmi nelle maglie libere della connessione tra una galleria ed un’altra, per ricercare notizie su questo esemplare dal nome bizzarro.
In lingua portoghese, dodo significa “tonto”, “sempliciotto”, e le mie vaghe reminiscenze provenivano dal film l’“Era glaciale”, visto però troppo tempo fa.
Ad un certo punto della saga, la tigre Diego, il bradipo ed il mammut trovano un’anguria con cui sfamare il bambino che li accompagnava nel loro viaggio alla ricerca degli umani, ma l’anguria gli viene sottratta da un dodo, membro di una folta colonia che stava raccogliendo scorte di cibo per superare l’era glaciale.
Tuttavia i tre riescono a riprendersi l’anguria malgrado l’inferiorità numerica, in quanto i dodo si rivelano sbadati e ingenui, finendo per perdere tutte le angurie che avevano raccolto, e finendo anche per morire di fame ed estinguersi.
Il dodo è citato anche in “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carrol, dove compare nel capitolo della “Brigata delle strane creature“, insieme all’anatra, al lorichetto (un bellissimo pappagallo dai colori arcobaleno) ed all’aquilotto. Le fantasiose creature sono caricature di personaggi reali, ed il dodo è il reverendo Dodgson, che non riusciva a parlare in pubblico o a conversare con persone adulte, senza farsi sopraffare dalla balbuzie.
Insomma, letteratura e cinematografia sono unanimi nel considerare il dodo un sempliciotto, ma chi era costui?
Il Dodo era un pennuto che aveva prosperato per molto tempo nelle isole Mauritius, dove è considerato una sorta di “mascotte” tanto che i francobolli locali raffigurano tuttora l’effigie del volatile.
Ma quando alle Mauritius, intorno alla fine del 1500, approdarono i conquistatori spagnoli e portoghesi, che importarono in quelle terre animali come cani, gatti, topi e maiali, in pochi decenni il dodo si estinse.
L’ultimo è stato avvistato nel 1662.
Il dodo era destinato a questa fine, perché aveva un imperdonabile difetto di fabbrica: non sapeva volare. O non sapeva più volare.
Gli etologi hanno ipotizzato che la sua lunga sopravvivenza in un territorio privo di predatori, gli avesse reso il volo superfluo, portandolo nel corso dell’evoluzione all’ingrossamento delle dimensioni ed all’atrofizzazione delle ali.
L’evoluzione, cancellando la funzione del volo, non aveva fatto i conti con l’arrivo di un punto di rottura sancito dalla comparsa dell’’uomo, verso cui il pennuto, non avendo esperienze pregresse di convivenza, era docile ed amichevole.
Non so se chi ha letto questo articolo ha provato, come me tristezza, e tenerezza verso il povero Dodo.
La cui storia mi illumina un significato: quando rinunciamo a scoprire chi siamo davvero, cosa ci piace fare e chi vogliamo essere, rischiamo di morire dentro.
Rischiamo di fare la fine del dodo che non ha saputo conservare nel tempo la sua essenza più pura di creatura dei cieli, l’atto primigenio del volo; che non ha saputo smascherare l’inganno di un processo evolutivo che gli ha fatto illusoriamente credere che sarebbe sopravvissuto anche abbandonando la sua vera essenza.
Ma credere ciecamente alle leggi ambientali, nel nostro caso alle circostanze esterne, al comportamento degli altri ecc., può portarci sulla strada di smettere di plasmare il nostro destino, facendo lentamente estinguere speranze e desideri.
Come esorta sul finire della sua bellissima poesia “Lentamente muore”, la scrittrice brasiliana Martha Medeiros:
“Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo
di gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare” ….