Da studioso di formazione e sviluppo umano, mi sono molto interessato di autostima, sviluppando nel tempo (soprattutto sulla scorta dell’opera di Albert Ellis), una posizione minoritaria.
Secondo la maggioranza di psicologi ed educatori, l’autostima sarebbe qualcosa di utile e sano, da incoraggiare e da insegnare a pazienti ed allievi.
L’enciclopedia Treccani la definisce cosi’:
“La considerazione che un individuo ha di se stesso. L’autovalutazione che è alla base dell’autostima può manifestarsi come sopravvalutazione o come sottovalutazione a seconda della considerazione che ciascuno può avere di sé, rispetto agli altri o alla situazione in cui si trova”.
Le trappole, a ben vedere, sono già implicite nella definizione.
Provo a spiegarmi: il processo della considerazione del sé parte da lontano, da quando il bambino fonda questa autostima sull’accettazione dei giudizi rispecchiati degli altri.
Citando Ellis (“Reason and Emotion in Psiychotherapy”), ad un bambino viene insegnato che dovrebbe piacersi quando riesce bene e che dovrebbe odiarsi quando fallisce. O più precisamente, gli viene insegnato che, poiché gli altri lo disapprovano quando non riesce a padroneggiare qualcosa, dovrebbe accettare il loro giudizio di se stesso e farlo proprio.
Il costrutto di autostima si svilupperebbe fondandosi sulla globalizzazione sull’essere, del giudizio di valore sul fare e sull’avere.
In definitiva, ci si arriva a stimare in base alle prestazioni (“fare”) e qualità (“avere”), che sono però aspetti parziali e mutevoli, perché le prestazioni saranno a volte buone a volte cattive, mentre le qualità personali tendono a variare nel tempo: possono aumentare, diminuire ecc. (pensiamo alla responsabilità, alla costanza, all’assertività, a vari tipi di intelligenza ed a tantissime altre).
L’essere di un individuo è invece stabile ed immutabile nel tempo: si è, e si esiste, da quando si viene al mondo, fino a fine corsa, e si è sempre gli stessi esseri umani vivi.
Il proprio sé quindi, a mio modo di vedere, non va stimato o non stimato, ma semplicemente accettato, spontaneamente ed in modo il più possibile non autovalutativo; non possiamo dare i voti al fatto di essere venuti al mondo e di esistere!
E’ naturale essere soddisfatti quando si agisce con capacità: il verbo “ποιέω” in greco (pronuncia poièò) che significa “fare”, ha la stessa radice di poesia. Questo significa che si può provare una soddisfazione armonica, “poetica” appunto, anche dopo avere spazzato bene una stanza.
Godere dei propri buoni risultati è pienamente legittimo, ma rivalutarsi (o all’opposto svalutarsi) non ha senso.
Altra trappola dell’autostima è la possibile confusione tra valore estrinseco e valore intrinseco. Il primo è quello attribuitoci dagli altri, mentre il secondo è il pregio od utilità per noi stessi. Il valore estrinseco non va preso troppo alla lettera perché è un concetto estremamente relativo che può variare ampiamente da un osservatore all’altro. Credo che questo lo abbiamo visto bene pochi giorni fa, con la scomparsa del genio del pallone Diego Armando Maradona: per alcuni quasi una divinità da idolatrare, per altri, fondamentalmente, un poco di buono.
E’ ovvio che gli individui hanno un valore estrinseco o sociale, nel senso che gli altri li trovano intelligenti o stupidi, utili o inutili come colleghi, partner e compagni. Ma per se stessi non hanno realmente il valore dato dall’accezione più comune del termine; non possiamo dire che Maradona valga di più del magazziniere, o un primario più di un infermiere.
Ogni essere umano, per sé stesso, ha l’inestimabile valore di essere l’unico canale o strumento tramite cui partecipare al processo della vita, e credo che ogni operatore di sviluppo personale debba incoraggiare soprattutto il costrutto dell’autoefficacia (sulla quale presto scriverò un articolo), promuovendo un’accettazione incondizionale di sé, slegata da prestazioni e paragoni.
Voglio concludere questo articolo con le parole tratte da Robert S. Hartman, filosofo tedesco-americano:
“Chi sono io? Sono quest’uomo su questo pianeta Terra. Sono nato nudo e devo morire. Questo è tutto. Ecco la sostanza di essere me stesso; ed essere un professore o, in quanto a ciò, qualunque altra cosa, è diverso dall’essere quest’uomo, nato su questo pianeta Terra e destinato a morire. Qualsiasi definizione estrinseca di me stesso non è realmente la definizione di me stesso. Per poterla formulare, non mi devo nè costruire e nemmeno astrarre da me stesso, ma semplicemente essere, ossia identificarmi con me stesso. E questo è il compito più difficile e più importante della nostra vita morale”.