Un paio di notti fa, già illanguidito nel pre-sonno, ascoltavo una trasmissione su un canale Rai in cui vagamente ho percepito che si parlasse di ‘’ipocrisia’’ e di come questo concetto discenda dalla recitazione teatrale.
Un moto di sdegno mi ha pervaso: come è possibile, mi sono chiesto pur se assopito, accostare una parola meschina, ad una delle più sublime tra le arti?
Per gli antichi greci, l’ipocrita era l’attore (dal greco ypo = sotto, krinein = spiegare).
L’attore era colui che simulava, un’espressione incarnata della finzione: dire ipocrita, infatti, è come dire falso.
Ai giorni nostri, falsità ed ipocrisia sembrano essere diventate delle categorie generali, un mare magnum capace di assorbire tante realtà stratificate: quando qualcuno delude, quando fa scelte impreviste che feriscono, quando mente, insomma quando il suo comportamento ed i suoi sentimenti sfuggono alla comprensione, allora lo si chiama ipocrita. A volte bollandolo, e sigillandolo in uno scatolone con tanto di etichetta, in cui si rinuncia a capirne i perché.
Ma qual è l’anello mancante con l’attore?
L’attore finge, certo, ergo è ipocrita.
Però c’è una bella differenza: l’attore finge sapendo, e facendo sapere, di fingere.
Nessuno si sognerebbe di credere che Amleto venga interpretato da Amleto, Gertrude da Gertrude e Polonio da Polonio!
Quale ipocrisia può esserci in una finzione convenzionale ed a carte scoperte?
Riflettendoci meglio, mi sono accorto che le origini dell’ ypokrites erano lì ad offrirmi uno spunto formidabile per sostenere una tesi che ho fatta mia, grazie proprio all’esperienza teatrale, almeno venti anni fa: il mondo e la società sono un infinito palcoscenico, e tutti noi personaggi.
Forse, allora, è il caso di tirare fuori l’ipocrisia dallo scatolone e di accettarla come una scomoda verità dei nostri tempi.
La società moderna è fondata sull’ipocrisia: basta guardare i pacchetti di sigarette che continuo imperterrito a divorare, con il bollo statale e poco sotto il monito ‘’Nuoce gravemente alla salute’’, o la diffusa incentivazione del gioco d’azzardo con i gratta e vinci venduti ormai anche dal droghiere, con tanto di amorevole raccomandazione a non diventarne dipendenti.
La politica è un immane teatro dove attori nemmeno troppo bravi, svendono continuamente se stessi ed il loro prossimo, pur di mantenere carriere ed onori economici e di non ammettere le loro menzogne.
Ciascuno di noi, mente abitualmente, anche se magari vorrebbe dire la verità; ma in alcuni contesti non può permettersi di farlo, perché potrebbe ferire qualcuno a cui tiene, oppure subirne il giudizio.
La verità inconfutabile, è che bucando le maschere dell’ipocrisia, una miriade di rapporti di ogni tipo finirebbero in una pozza di agonia.
L’ascesa dei social è un altro potente combustibile per il motore dell’ipocrisia, come dimostrano i tanti ‘’acchiappalike’’ che per raccogliere apprezzamenti si fingono sostenitori radicali di convinzioni che in realtà non hanno mai sposato.
Ma poi, non è forse vero che noi mentiamo anche a noi stessi?
E lo facciamo spesso, perché sappiamo usare il nostro complesso dialogo interiore per travisarci la realtà o per mistificarla ad altri, per scendere a patti con la nostra coscienza o per mantenere relazioni senza cui staremmo peggio.
Siamo abituati a mentire, per spirito di sopravvivenza, in una società in cui realtà e finzione sono interscambiabili, e dove la verità è spesso manipolata dall’apparenza.
Questa, secondo me, è un’altra verità: siamo ipocriti anche con noi stessi.
Ed allora si capisce meglio l’antico nesso: nel teatro greco, l’ipocrita era l’attore.
Poi un giorno l’ipocrita decise di scendere dal palcoscenico, pur continuando ad indossare una maschera.
Non più quella di Amleto: era la sua, anzi, le sue.
Così nacque, e prosperò, l’ipocrisia.