Una settimana fa, sul palcoscenico del Teatro Marconi, è andato in scena lo spettacolo “The Lady” incentrato sul tema della violenza contro le donne.
Ne parlavo nel precedente articolo, in cui provavo a dare una forma a quell’umano e vibrante mal di pancia che pulsa nelle viscere dell’attore quando il passare delle ore inesorabilmente conduce al fatidico “Chi è di scena”!
Lo spettacolo conteneva un messaggio potente, preziosamente incastonato dentro una cornice briosa e disimpegnata, solo a tratti squarciata dalle intemperanze verbali del mio personaggio che era l’aguzzino di turno, l’ombra cattiva dentro una specie di sogno a cui purtroppo corrispondono troppi bruti nelle angustie della vita reale.
Immaginate una decina di personaggi, tra cui il violento e la sua vittima, una ragazza impaurita e nascosta dietro la muraglia di una giacca nera e di ingombranti lenti scure, i quali in apparenza si trovano sul palco per svolgere un provino a suon di monologhi illustri, con tanto di regista ed assistente a dirigerli dalla prima fila della platea.
Il castello illusorio si sgretola quando io e la ragazza molestata veniamo invitati ad interpretare un dialogo tra due personaggi in cui il sapore è quello tristemente noto del femminicidio e della tardiva resipiscenza.
A questo punto, insieme alla giacca ed alle lenti della ragazza, che rivelano segni di percosse ovunque, crollano tutte le maschere, ed il gioco delle illusioni evapora come un fantasma che è lì a dirci che nel teatro, come spesso anche nella vita, nulla è come sembra: il cattivo è stato messo in mezzo, nessuno è ciò che sembrava, si tratta invero di una compagnia di psicologi, avvocati e di donne ex abusate, che spingono la giovane protagonista a denunciare.
In questo senso, oltre al metateatro ed alla mescolanza di realtà e finzione, il teatro esercita anche il suo potente ruolo di agente catartico, tale da favorire, a partire dall’imitazione della realtà e dalla intensa immedesimazione emotiva, un senso di “liberazione”, un possibile scatto intellettuale ed emotivo.
Oscar Wilde diceva: “Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero”.
La vittima, coperta di lividi su tutto il corpo, mentiva continuamente a se stessa, illudendosi che il suo carnefice potesse ravvedersi; sotto la maschera della finta attrice e grazie alla verità della finzione scenica, trova la sincerità interiore per ribellarsi.
Su un piano metateatrale, la catarsi ha funzionato.
Se lo avesse fatto anche a livello teatrale, penetrando nella coscienza dello spettatore, il fine più alto sarebbe stato raggiunto: una sola donna che possa aver sentito quello “scatto” nella sua anima, decidendo di fare qualcosa per smetterla di essere vittima a vita.
Perché, anche nella vita, a volte i ruoli si confondono: fino a che punto ad esempio, una donna che continua a prendere botte ed insulti da un uomo che altri non è che un orco, non diventa essa stessa la propria carnefice?
E, come si evince dalle parole dei personaggi dello spettacolo, il carnefice è a sua volta vittima di un condizionamento culturale che porta l’uomo a credere di non potersi permettere fragilità e di dover essere dominante.
Anche il violento, quindi, può essere incluso come possibile destinatario di quel messaggio di sublimazione di passioni brutali ed incontrollate da incanalare in pulsioni meno distruttive.
Chiudo l’articolo ringraziando la nostra regista Tiziana Sensi, lo staff del Teatro Marconi e gli spettatori che sono venuti a guardarci, ed i miei magnifici compagni di avventura Lorenzo Catarinella, Isabelle Québert, Laura De Luca, Vanessa De Nisi, Loretta Del Vescovo, Susy Mannu, Maria Teresa Liuzza, Serena Volterra, Sara Campagnaro e Fabiana Occhiodoro.