I filosofi greci, nell’Atene del V° secolo a.C. erano soliti dire: “Prenditi cura di te, conosci te stesso e sviluppa la tua parte migliore“, che era nello stesso tempo una massima filosofica ed una regola di condotta personale di gran pregio.
Nel mondo di oggi, la parte relativa alla cura di se stessi sembra avere perso significato ed importanza, tanto che chi lavora per l’autoaffermazione e lo sviluppo di sè può generare l’impressione di essere una persona egoista, troppo focalizzata su se stessa, e nello stesso tempo una sorta di minaccia per le diverse forme di collettività in cui si trova ad operare.
Si arriva alla paradossale situazione per cui l’indagine e l’espressione delle proprie potenzialità possono suscitare diffidenza e sotterranea disapprovazione.
Vorrei allora risolvere questo paradosso rimarcando come prima cosa il tratto del tutto naturale e squisitamente “umano” del prendersi cura di se stessi: la mia formazione mi ha portato a credere che fondamentalmente non esista alcun bisogno radicato ed imprescindibile nella specie umana, se non alcune tendenze, fortemente connaturate all’uomo, ma difficilmente identificabili come bisogni assoluti.
Persino il bisogno più inviolabile tra quelli che potremmo immaginare, ossia il bisogno di mantenersi vivi, appare essere tale come sembrerebbero dimostrare le gesta di tutti coloro che volontariamente hanno rinunciato e continuano a rinunciare alla loro vita per affermare un ideale religioso, patriottico ecc.
Ritengo tuttavia che l’umanità nel suo complesso abbia due scopi universali: uno è appunto quello della sopravvivenza (anche se ho appena dimostrato che non si tratta di un bisogno imprescindibile), l’altro è quello del benessere. Un ben-essere inteso non in senso materialistico, quanto psicologico ed interiore.
E forse, a pensarci bene, questo secondo scopo è ancora più forte di quello di sopravvivenza: chi si toglie volontariamente la vita, in questo caso senza un fine ideale, sembra farlo non perchè non sopporti più la sua condizione di essere umano vivo, quanto quella di essere umano sofferente. Non sopporta più non già il vivere in sè, quanto lo stare male.
Adoperandosi nella cura di se stesso e nel costante esercizio di sviluppare la sua parte migliore, una persona quindi starebbe perseguendo una finalità universalmente connaturata ad un essere cosciente che è quella di alimentare il proprio benessere interiore, il suo stare meglio.
E’ fuor di dubbio che chi lavora alacremente sul proprio progresso personale abbia sviluppati in sè dei tratti individualistici, ma essere individualisti non equivale ed essere egoisti. In un percorso di sviluppo personale non può esistere crescita senza contributo, progresso senza condivisione, lavorare su se stessi significa lavorare attivamente anche sul proprio contesto relazionale, e riconoscere nell’altro una risorsa preziosa, un’oasi accogliente in cui dissetarsi negli inevitabili momenti di stanca.
Ed uno degli sbocchi finali di una maggiore autoconsapevolezza è proprio la condivisione, il gradino più alto della piramide cui non si può arrivare se prima non ci si è riusciti a sviluppare ed a prendere coscienza di chi si è e si è impegnati a diventare, altrimenti potremmo trovarci nella spiacevole situazione di quel signore generoso che vorrebbe aiutare il senzatetto che gli chiede l’elemosina, ma che frugandosi nella tasca si accorge di non avere niente da dargli.
E’ evidente che prima di dare dobbiamo avere, ed uno dei motivi per cui vale la pena avere di più, è proprio quello di essere pronti a dare.