Due estati fa, ho scritto per la prima volta un articolo sul romanzo che avevo iniziato a comporre. Ricordo con nitidezza l’entusiasmo di quei giorni: l’idea iniziale si trasformava sotto i miei occhi, si ampliava, prendeva strade inaspettate. Trascorrevo intere ore su un balcone con una splendida vista sul mare, immerso nella magia della scrittura, il suono lontano delle onde a farmi compagnia.
Poi però è arrivato il ritorno alla routine quotidiana, fatto di impegni professionali e incombenze che non lasciano tregua. Mi sono distaccato dalla mia storia per interi mesi, e solo nell’ultimo mese di agosto sono riuscito a riprendere la scrittura. Stavolta, però, non c’era il mare ad accompagnarmi con la sua melodia, solo il caldo soffocante del mio appartamento infuocato. Eppure, in quelle giornate estive, scrivevo senza sosta: dall’alba fino a tarda sera, interrotto solo dalla pausa per il pranzo.
Nonostante il sacrificio apparente, quelle ore hanno riempito le mie giornate di significato. Era come se ogni parola scritta mi avvicinasse alla storia, come se ogni pagina fosse un frammento di me stesso che prendeva vita. Una volta, mi sono addirittura commosso, sorpreso dalla profondità delle emozioni che riuscivo a evocare.
Superata l’estate, però, mi sono imposto una disciplina diversa. Non volevo più commettere l’errore di abbandonare il romanzo per mesi. Così, come una goccia cinese che scava la pietra con pazienza, ho continuato a scrivere a piccoli passi: qualche sera prima di dormire, i fine settimana rubati agli impegni.
Scrivere un romanzo, mi sono reso conto, è un’impresa straordinaria, ma anche immensamente complessa. Occorre una concentrazione profonda, una costanza che non sempre si riesce a trovare. A volte, il tempo è un nemico: i piccoli ritagli di ore non bastano per entrare nel flusso creativo. Altre volte, paradossalmente, l’abbondanza di tempo diventa un vuoto: l’ispirazione sembra svanire come un gatto che si dissolve in un vicolo oscuro.
Mi sono chiesto spesso: devo aspettare l’ispirazione, o trovarla io? La mia anima poetica ama pensare che l’ispirazione venga a trovarci, come una farfalla che si posa sul palmo della mano — ma solo se il palmo rimane aperto, pronto ad accoglierla senza stringerla. Eppure, ci sono stati momenti in cui l’ho chiamata io, quasi con forza, e lei, pigra e assonnata, è arrivata al mio richiamo.
Mattone dopo mattone, sono arrivato a un giorno che non dimenticherò: quattro giorni fa, un venerdì di chiusura aziendale. Il bel tempo fuori sembrava invitante, ma io ero immerso in una scrittura febbrile, completamente proiettato verso il mio romanzo. Le parole fluivano rapide, inarrestabili, portandomi nel cuore di un ricordo doloroso. L’intensità era tale che, senza accorgermene, mi sono strappato via con un morso un intero lembo di pelle dal dito. Il tappetino del mouse si è impregnato di sangue, un’immagine inquietante ma intrisa di una poeticità cruda che mi ha scosso.
Poche ore dopo, però, ho provato l’opposto: un fremito di gioia pura, un’esplosione di emozioni. Per la prima volta, ho percepito un senso di compiutezza nella mia opera. Sentivo che c’era vita dentro, e che quella vita avrebbe potuto raggiungere qualcun altro, toccare altre anime.
Chiudere l’anno con questa consapevolezza ha dato al mio 2024 una luce particolare. Non è stato un anno perfetto, ma sarà un anno da ricordare, perché a differenza di altri anni ha avuto un gran finale, e mi ha fatto sentire che la mia storia non è solo un insieme di parole, ma un riflesso autentico di ciò che sono, e di ciò che posso condividere con il mondo.