In questo articolo voglio sostenere il paradossale elogio del concetto di mediocrità, partendo dall’esplorazione di come esso veniva inteso nei tempi più lontani.
L’avversione per la mediocrità infatti, non sempre è stata universale come appare oggi.
Essa, nell’antichità, veniva non solo accettata, ma anche celebrata come virtù: il poeta latino Orazio, nella sua celebre locuzione aurea mediocritas (la dorata mediocrità), indicava proprio il valore intrinseco del giusto mezzo, lontano dagli eccessi, capace di offrire equilibrio e serenità.
’’Est modus in rebus, sunt certi denique fines, quos ultra citraque, nequit consistere rectum’’
‘’Esiste una misura nelle cose, ci sono dei confini al di là e al di qua dei quali, non può sussistere il giusto’’
Oggi invece, sembriamo vivere in una cultura che idolatra l’eccellenza.
Persino arrivare secondi può essere visto come un risultato scadente, perché l’unica cosa che conta davvero è vincere, persino essere un buon padre o un buon marito può esporre al rischio di non essere ‘’abbastanza’’ perché per essere veramente amati e rispettati bisogna essere non ‘’buoni’’ ma eccezionali.
Ma come siamo arrivati a trasformare un concetto così sfaccettato come la mediocrità, in un epiteto dispregiativo?
Forse perché, nel nostro tempo ossessionato dalla performance, dal progresso e dall’individualismo esasperato, la mediocrità è vista come il fallimento dell’aspirazione di non essere il migliore.
Tuttavia, scavando nelle radici etimologiche e culturali di questa parola, possiamo scoprire un significato più profondo, che può aiutarci a rivalutarne l’essenza.
Il termine mediocris deriva dal latino, combinando medius (nel mezzo) e ocris (un’altura irregolare, come una collina).
L’immagine originaria è quella di una mezza altezza: né una montagna impervia, né una pianura anonima, ma un rilievo intermedio, da cui si gode una vista adeguata senza il rischio di vertigini. Questo significato originario ci porta lontano dall’idea moderna di mediocrità come sinonimo di qualcosa di scadente.
Orazio celebrava questa posizione di mezzo come la chiave per una vita felice e armoniosa.
Non si trattava di accontentarsi del minimo, ma di scegliere consapevolmente di evitare gli estremi. La aurea mediocritas non è la rinuncia a migliorarsi, ma un elogio della misura, del saper stare al centro del proprio mondo, senza essere trascinati dalle ambizioni smodate o dalla paura del fallimento.
Eppure, il fascino della mediocrità non è mai stato privo di ambivalenza.
Anche in latino, mediocris portava con sé una sfumatura negativa, indicando ciò che è insignificante o trascurabile.
Questa ambiguità rispecchia una tensione universale: è difficile considerare il medio come una scelta di valore in un mondo che tende a polarizzare il pensiero. Siamo attratti dagli estremi, perché essi offrono una narrativa chiara e rassicurante: il freddo è diverso dal caldo, il ricco è diverso dal povero, il successo è diverso dal fallimento.
La mediocrità, invece, si situa in una zona grigia, sfidando le nostre categorizzazioni rigide.
Forse è proprio questa complessità che rende la mediocrità così interessante.
Il giusto mezzo non è facile da definire né da mantenere: richiede discernimento, consapevolezza e, soprattutto, la capacità di resistere alla pressione di essere sempre al massimo.
In questo senso, la mediocrità è un atto di ribellione silenziosa contro l’ipercompetitività.
Pensiamo per un momento a cosa significherebbe rivalutare la mediocrità nella nostra vita quotidiana.
Potremmo guardare con occhi diversi una città “mediocre”, che non è una metropoli né un paesino sperduto, ma che ci offre un equilibrio tra comodità e tranquillità.
Potremmo apprezzare una distanza “mediocre”, che non è una maratona né una passeggiata, ma un cammino che ci permette di riflettere senza stancarci troppo.
Persino un risultato “mediocre”, come un piazzamento a metà classifica, potrebbe essere un invito a godere del viaggio anziché ossessionarsi per il podio.
La mediocrità, in questo senso, è la misura del possibile.
Non è l’assenza di ambizione, ma il riconoscimento che non tutto deve essere straordinario per essere significativo.
È il rifugio dell’anima contro l’ansia del perfezionismo e il timore del fallimento.