In questo momento, mi trovo a scrivere nella casa dei miei genitori, in una via del quartiere Portuense a Roma, dove poco più di 20 anni fa si consumò un drammatico caso di cronaca: un ragazzo di circa trent’anni sterminò la sua famiglia, uccidendo i genitori e sigillandoli in due sacchi di plastica.
Ricordo ancora il tripudio di sirene della polizia e la ressa chiassosa di curiosi e giornalisti, proprio davanti la casa in cui vivevo.
Si chiamava Aral Gabriele, ed è stato condannato a molti anni di carcere (pur non avendo mai confessato la sua colpevolezza).
Il movente? I genitori credevano stesse per laurearsi, ma il ragazzo li aveva ingannati, e non aveva completato nemmeno metà degli esami.
——————————————————————————————————————————————————————————————————————————————————-
Alcune sere fa. Sono nella casa in cui vivo solo da diversi anni. Sto guardando l’unico programma televisivo che mi diverte e mi rilassa, ‘’Le Iene’’.
Sta andando in onda un servizio che affronta lo stesso argomento: ragazzi che non studiano, e che mentono.
Il servizio parla di uno studente, inghiottito da questo terremoto di bugie, e tra le macerie di un senso di colpa e vergogna tossica: i genitori pensano che tra pochi giorni discuterà la tesi, in realtà non ha dato che pochi esami.
Mentono perché si insinua la paura di deludere, le bugie si propagano come metastasi, fin quando il castello di menzogne inesorabilmente implode su se stesso.
E’ il momento in cui la vita, nella sua mente, prende un bivio altrettanto tragico di quello della storia di Aral, e coincide con l’idea di farla finita.
Il ragazzo saluta tutti e parte, diretto verso una cittadina della Spagna: fa credere di essere andato a farsi una vacanza, in realtà ha prenotato il suo ultimo giorno di vita.
Quando è sul posto, e quasi lambisce le sponde della fine, di quel ‘’The End’’ decantato da Jim Morrison con estasi messianica, un ragazzo di colore gli si para davanti, e gli chiede: ‘’Dove vai’’?
Lui non risponde, tira dritto, ma quel ragazzo lo segue, e lo incalza: ‘’Dove cazzo vai?’’
Il protagonista, racconta nel servizio, pensa di affrontarlo e di farci a botte, ormai non ha niente da perdere, finchè il ragazzo di colore lo guarda profondamente negli occhi e gli chiede: ‘’Fratello, ma che cosa ti succede?’’
Quell’attimo ferma il tempo, è una spina che gli punge il cuore, facendogli sgorgare gocce di vita; quella domanda, quegli occhi squarciano le tenebre e riportano la luce.
Quella luce illumina le quinte della macabra rappresentazione di una mente in subbuglio, il personaggio aspirante suicida evapora nel nulla, ed il ragazzo torna nella realtà.
Fa ritorno In Italia. Non riempie più il sacco ma lo svuota, parlando ai genitori. Comprende. Continua a vivere.
——————————————————————————————————————————————————————————————————————————————————-
Questa storia mi ha molto colpito, e filosoficamente mi ha fatto pensare ad uno dei precetti più tristi e banali che possano esistere: quello di farsi gli affari propri.
A Roma c’è anche un detto molto colorito, secondo il quale ‘’Chi si fa i c…. suoi, campa 100 anni’’.
Ce lo inculcano ripetutamente sin da quando siamo piccoli: ‘’Non guardare’’, ‘’Non chiedere’’, ‘’Non ti impicciare’’.
Ebbene, io questo detto e questa filosofia, non li ho mai sopportati.
Apprezzo la riservatezza e la discrezione, ma una filosofia oltranzista del farsi i fatti propri non la condivido.
La vedo espressione di un animo egoista, rinunciatario e disinteressato.
In tante occasioni di vita, non farmi i fatti miei, mi ha fatto ottenere dei successi: nel lavoro, nelle relazioni di amicizia e con l’altro sesso.
In questa storia, una persona che non si è fatta i fatti suoi, ne ha salvata un’altra, e nella sua figura prepotentemente invadente e gentilmente divina nello stesso tempo, mi sembra di vedere un angelo scuro e un pò luciferino, di un demoniaco che non separa, ma che unisce i cuori.