In questo articolo, come ho già fatto in qualcuno dei miei precedenti, voglio riabilitare una parola ed un concetto che ai giorni nostri suona vagamente dispregiativo: l’apatia.
Oggi, se ci riferissimo a qualcuno con il termine di apatico, intenderemmo dipingere il quadro psicologico di una persona priva di qualsiasi interesse: verso un lavoro od un’attività, verso le emozioni che possono sgorgare dalle relazioni, e probabilmente verso la vita nella sua interezza.
Ci risuonerebbe alla mente l’orribile distacco dalla realtà di Mersault, il protagonista dello Straniero di Albert Camus, un impiegato che conduce una vita squallidamente conformista, e che vive con indifferenza eventi tragici come la morte della madre ed un delitto da egli stesso compiuto su una spiaggia.
L’ispirazione ad approfondire il concetto di apatia, mi è giunta pochi giorni fa, quando chiacchierando con un amico, egli ha detto di se stesso: ”Ho raggiunto l’atarassia. Ma non l’apatia!”.
In tal modo, il mio amico ha riconosciuto un valore all‘atarassia, noto postulato della filosofia epicurea, la quale designa una pace dell’animo che ha una valenza positiva, perchè è assenza di turbamento ricercata attivamente nel piacere che contempla la misura e l’accontentarsi di ciò che si ha.
Ma ha voluto scansare da sè, l’ombra dell’apatia.
Da quale parola deriva apatia?
E’ facile riconoscere in essa il termine greco ‘’pathos’’, preceduto dal suffisso alfa, ‘’a’’, privativo, come in tante altre parole (acefalo, agnostico, apolide ecc.); etimologicamente quindi, apatia significa privo di passione.
Filosoficamente, tuttavia, la questione è un pò diversa: nella filosofia stoica, l’ambiente intellettuale che ha generato il concetto di apatia, essa stava ad indicare un principio etico di indifferenza a tutto, fuorchè all’esercizio della virtù.
Secondo la filosofia stoica lo scopo della vita umana è la felicità, che si raggiunge vivendo ”secondo natura”; ma la natura umana non tende alla ricerca del piacere, come sosteneva la filosofia epicurea di cui ho parlato nel mio articolo sull’edonismo.
Al principio del piacere, gli stoici frappongono quello di logos, ossia di ragione e di razionalità, ed il principio di necessità: tutto quello che accade nel mondo soggiace a questo senso di necessità, la quale incarna un piano naturale e divino.
In questo quadro, le passioni non sono altro che disturbo e deviazione dell’anima, e l’unica soluzione per il saggio è quella di estirparle totalmente, da cui a-patheia: apatia, impassibilità.
Questa impassibilità però, non è tale verso tutto, perchè non si esercita appunto verso ciò che permette l’attuazione della virtù ed il potenziamento del logos: lo stoico è quindi apatico (indifferente) verso la ricchezza e gli onori, ma non lo è verso le leggi e le norme sociali, ritenute una manifestazione del logos.
Sotto questo aspetto la felicità dell’apatico è ben diversa da quella epicurea, da quel godimento tipico dell’’’idiota’’ che si incarna in un sano piacere individualistico; è invece una felicità che si attua nel vivere rispondendo alle norme sociali ed all’etica del dovere.
Probabilmente, la mia digressione filosofica sulle origini dell’apatia non avrà contribuito a renderla più ”simpatica” ed affascinante, spero tuttavia di averne smussato gli angoli più angusti, che la fanno spesso accostare alla depressione od alla decadenza cognitiva.