Come possono nascere parole, versi, immagini per una sconosciuta?
Eppure accade.
Come una febbre improvvisa che non chiede il permesso, si insinua nei pori della pelle e lì si insedia, senza un perché.
Forse è il suo nome, e le memorie che senza volerlo risveglia.
O il fascino sottile di una storia che ignoro, ma che immagino ricca di segreti e chiaroscuri.
O forse è quello sguardo — lo stesso che, dalla prima volta, non mi era passato inosservato.
Già allora avevo incrociato i suoi occhi. Ma senza lasciarmi scalfire, come si osservano le nuvole quando si ha troppa fretta per leggerne le forme. Una bellezza luminosa, certo. Ma non ancora capace di farmi tremare il petto.
E poi, ieri.
Qualcosa ha vibrato, in silenzio.
Come una corda d’arpa toccata per caso dal respiro del vento.
Forse è stato uno sguardo che ci siamo scambiati, appena più lungo.
Forse il modo in cui ha scostato i capelli, con una grazia maestosa.
Oppure quel sorriso – sembrava nuovo, ancorché familiare. Più intimo. Più vicino.
Un accenno di complicità che ho magari solo sognato.
Probabilmente il nulla.
Ma se anche fosse, questo nulla ha avuto il potere di increspare la quiete dei miei pensieri, come fa il vento con la superficie di uno stagno. Un frammento di cinema in bianco e nero che si è acceso nella mia testa.
Quel sorriso…
Quegli occhi…
Ieri mi sono sembrati calici di cristallo, colmi di un vino raro, denso e aromatico.
Non li ho davvero bevuti. Ma ne ho sentito il sapore.
E da allora, la sete è rimasta.
Una sete che mi accompagna anche adesso, mentre scrivo di lei senza conoscerla, come se il desiderio bastasse a colmare la distanza.
Il suo nome è lo stesso di una ragazzina per cui la prima volta ha battuto il mio cuore, quando non avevo nemmeno 10 anni.
Ricordo il juke-box, un balcone affacciato sui monti, l’estate che rideva negli occhi. E’ possibile che sia lì che tutto comincia: quando da bambini impariamo cosa significa restare incantati. E poi, in certi giorni strani, qualcosa o qualcuno ce lo fa ricordare.
Mi torna in mente una poesia di Baudelaire. ‘’A una passante’’‘
Non solo una donna, ma un’apparizione. Un lampo nella penombra quotidiana, una visione improvvisa che taglia il frastuono della città come una lama di luce.
Una bellezza che non si lascia afferrare, che scivola via tra le dita, inafferrabile al pari della sabbia umida.
Fuggitiva, vestita di nero, il colore in cui è l’enigma di ciò che sfugge alla presa.
Dolorosamente irraggiungibile, perché non c’è tempo, perché tutto si consuma in un istante: lo sguardo, il fremito, il battito sospeso.
E allora nasce il rimpianto. Il desiderio di ciò che non è stato e non sarà mai.
Perché in quello scambio effimero — uno sguardo, un gesto, una vibrazione che nessuno può spiegare — si era già consumata una storia intera.
Una storia mai vissuta, e proprio per questo, indimenticabile.
Mi chiedo se avrò mai l’ardire di fare anche solo un passo.
E se fosse solo un sogno? Uno di quelli fragili, che basta sfiorarli perché si dissolvano.
Potrebbe essere meglio lasciarlo lì, in bilico — sul confine incerto tra ciò che potrebbe essere e ciò che resta solo immaginato.
Così immagino, e resto sospeso.
Sulle labbra, un nome che forse non pronuncerò mai.
Sul viso una ferita dolce, e tra le dita una poesia interrotta, che respira solo nei battiti trattenuti dell’attesa.