A volte, sono proprio le piccole cose a offrire spunti di riflessione sulla realtà e sul tempo che viviamo.
L’occasione, questa volta, si è presentata sotto forma di un oggetto apparentemente insignificante, di quelli che la maggior parte delle persone non noterebbe nemmeno: un tagliando di “Gratta e Vinci” sgualcito, abbandonato sul marciapiede.
Nulla di strano, si potrebbe pensare. Eppure, un dettaglio mi ha colpito profondamente.
Non era la grafica del biglietto, né i suoi colori, ma un’assenza curiosa: i numeri vincenti e quelli da incrociare per ottenere un premio non erano stati grattati. L’unica parte scoperta era la stringa finale, in basso sul biglietto, quella che riporta il codice a barre con cui il tabaccaio verifica l’eventuale vincita.
Nessun momento di attesa, nessuna suspense, nessuna emozione legata alla rivelazione del risultato. Solo un’operazione fredda e meccanica, ridotta al minimo indispensabile.
Perché mi ha colpito tanto questa scena? Forse perché, in passato, ho approfondito gli aspetti psicologici legati al gioco d’azzardo. Non sono mai stato un amante dell’azzardo puro, di quei giochi in cui la sorte domina incontrastata, come il lotto, le lotterie istantanee o le slot machine. Ho sempre preferito quei giochi in cui esiste una componente di abilità, come le scommesse sportive o le carte, sebbene anche questi ultimi soggiacciano inesorabilmente a una forte componente aleatoria.
Ma c’è un altro motivo, ancora più profondo, che mi ha spinto a riflettere: l’azzardo non è solo questione di vincita o perdita.
È un’esperienza neurochimica. La dopamina, il neurotrasmettitore del piacere e della gratificazione, è il vero motore di questi giochi.
È la stessa sostanza che inonda il nostro cervello quando gustiamo un piatto delizioso, quando facciamo sesso o quando viviamo una forte emozione.
Nel gioco d’azzardo, l’eccitazione non sta tanto nella vincita in sé, quanto nell’aspettativa della vincita, in quel momento sospeso tra possibilità e realtà.
Ed è qui che il biglietto abbandonato diventa un simbolo inquietante.
Il gesto di grattare il biglietto è parte integrante del gioco.
È l’attimo in cui si accende la speranza, in cui il cervello si prepara a una possibile scarica di piacere. Ma quel biglietto gettato via suggerisce qualcosa di nuovo e, per certi versi, ancora più paradossale: la società in cui viviamo è talmente frenetica che nemmeno il piacere effimero del gioco ha più tempo di esistere.
La ricompensa, che per un giocatore dovrebbe essere il culmine dell’esperienza, diventa secondaria rispetto alla fretta di sapere il risultato. Non si grattano più i numeri con la speranza di un premio; si scansiona un codice a barre per accelerare il processo.
Siamo immersi in un mondo che brucia tutto, anche ciò che è già ardente per natura, come il desiderio effimero di un’illusione di ricchezza. Il piacere stesso viene compresso, svuotato, reso un’operazione tecnica. Se ne vanno il brivido, l’attesa, l’adrenalina. Resta solo la voglia di sbrigarsi.
Ed è qui che il ragionamento si estende ben oltre il gioco d’azzardo, verso cui il mio articolo non vuole offrire alcun incoraggiamento.
Se la fretta è riuscita a svuotare persino il piacere dopaminergico più immediato, cosa sta facendo alle nostre vite?
Sembra un paradosso, eppure è proprio così.
Lo scrittore Ennio Flaiano diceva che il traffico delle grandi città, nelle ore di punta, rendeva impossibile persino l’adulterio. Un’ironia amara, che oggi potrebbe applicarsi anche al piacere effimero della dopamina: viviamo così di fretta che non c’è nemmeno più tempo per assaporare il brivido dell’azzardo
Le attese sono diventate inutili, l’ansia da risultato divora il percorso.
Contrariamente a quanto dice una nota pubblicità, non c’è più tempo per l’attesa del piacere, perché il piacere stesso è stato fagocitato dalla necessità di consumare tutto in un secondo.
Quel biglietto abbandonato sul marciapiede non è solo un pezzo di carta: è il segnale di un tempo che non concede più nemmeno il tempo di sperare.
Di un tempo che pare avere irrimediabilmente dimenticato che il vero premio non è nella meta, ma nel viaggio per raggiungerla.