Ieri sera mi sono imbattuto casualmente in un talk-show in cui si parlava del tragico episodio di cronaca, che ha visto un giovane di 22 anni accoltellare brutalmente, con 75 coltellate, la sua fidanzata, poiché incapace di accettare la fine della loro relazione.
E’ un caso giudiziario che sta avendo una particolare eco mediatica, per una serie di motivazioni tra cui anche questa: il criminale sembra il classico ‘’bravo ragazzo’’, dal volto pulito e quasi angelico, e gli stessi genitori hanno più volte ripetuto che non aveva mai manifestato alcuna forma di disagio.
Nessun problema in famiglia, a scuola, o con gli amici. Insomma, un figlio modello.
Spontaneamente, mi è venuto da pensare a me, alla sua età: quanti patemi avevo dato ai miei genitori, quanti momenti di irrequietezza che gli avevano fatto passare notti insonni, con gli occhi chiusi e le orecchie sempre vigili, con il terrore che il telefono di casa potesse squillare, e che una voce fredda e indistinta dall’altro capo della linea li paralizzasse con una notizia orrenda su di me.
Un ospite della trasmissione di ieri si è chiesto: Ma questi genitori, che dipingevano loro figlio come una persona esemplare, avevano mai parlato con questo ragazzo?
La sua domanda, sembrava presuppore come risposta un ‘’no’’.
E qui arrivo a ciò che voglio dire: secondo me, invece, era molto probabile che i genitori avessero parlato con il loro ragazzo.
Certamente, è naturale chiedersi, come ha fatto il giornalista ospite al programma, se vi sia stato un dialogo familiare.
La domanda che invece mi faccio io, va oltre la questione della comunicazione, ed è la seguente:
Cosa resta nascosto sotto la superficie di un’apparente normalità?
Io, proprio a 22 anni, a causa della mia irrequietezza e della tendenza ad eccedere, sono rimasto vittima di una circostanza che mi è costata molto, fisicamente e moralmente, e che ha deviato il mio percorso di vita.
Non era il primo episodio, ma è stato senza dubbio il più clamoroso per i suoi effetti, sia su di me che sui miei cari.
Eppure, paradossalmente, è stato proprio attraverso episodi come questo che si è costruita una dialettica familiare significativa. I miei genitori, spinti dalla necessità, hanno provato a superare i propri limiti per conoscermi meglio, per comprendere il mio mondo interiore e, in parte, anche per interrogarsi su loro stessi.
Il tumulto interiore che avevo iniziato a manifestare precocemente – attraverso atti di ribellione, intemperanze scolastiche e conflitti con l’autorità – ha fornito un terreno fertile per la riflessione. Quelle intemperanze visibili hanno costretto chi si prendeva cura di me a fermarsi, a porsi domande sul proprio ruolo educativo e, se necessario, a ricalibrare il proprio approccio sulla base di ciò che emergeva.
Ed è qui che si colloca il paradosso: se accettiamo che l’adolescenza sia inevitabilmente un periodo turbolento, segnato da trasformazioni fisiche, emotive e identitarie, allora chi non manifesta minimamente questi conflitti appare in realtà più vulnerabile di chi li esprime apertamente. Le turbolenze visibili sono dolorose e difficili da affrontare, ma offrono una preziosa opportunità di intervento e confronto. Al contrario, il silenzio apparente, il comportamento impeccabile e l’assenza di segnali esterni possono celare un tumulto ancora più profondo, invisibile e, per questo, più difficile da cogliere e gestire.
È come un fuoco che cova sotto la cenere: invisibile, ma potenzialmente devastante.
I casi di cronaca purtroppo, raccontano che spesso è proprio tra i ragazzi modello, che si annidano i drammi più oscuri, quelli che si consumano in silenzio e sfociano talvolta in esplosioni di violenza che lasciano sgomenti.
Altri esempi di questi ragazzi sono Ferdinando Carretta, definito una figlio modello dai genitori, che finirono sotterrati nel giardino di casa per mano dello stesso figlio, o Aral Gabriele, condannato all’ergastolo per avere ucciso il padre e la madre e averli rinchiusi dentro due sacchi della spazzatura.
Sono personaggi che ricordano Norman Bates, il protagonista di Psycho, che sotto la sua maschera da ragazzo gentile e attento, e da figlio devoto, nascondeva un abisso di dolore e follia.
E che sembrano rilevare una verità spesso trascurata: quando un giovane non manifesta conflitti visibili, non significa che non ne abbia. Anzi, è possibile che stia reprimendo pensieri ed emozioni, incapace di elaborarli o esprimerli in modo sano. La paura di deludere, il desiderio di essere all’altezza delle aspettative, la necessità di mantenere una maschera di perfezione possono trasformarsi in un carico insopportabile.
Invece, molti genitori di ragazzi modello tendono a credere che il silenzio sia sinonimo di equilibrio. Si rassicurano pensando che “se non ci sono problemi visibili, allora non ci sono problemi”. Ma il silenzio può essere il grido più disperato. Questi giovani imparano presto che mostrare fragilità non è un’opzione; che il loro ruolo è quello di rispondere alle aspettative degli altri senza mai mostrare debolezza. Si chiudono in sé stessi, costruendo una prigione emotiva che li separa dal resto del mondo.
I “bravi ragazzi” che esplodono in atti di violenza non sono necessariamente “mostri” in senso tradizionale. Sono individui che non hanno trovato uno spazio per elaborare le proprie emozioni, per essere ascoltati senza giudizio. La loro apparente perfezione li ha resi invisibili nel loro dolore.
Essere genitori è forse il mestiere più difficile del mondo, perché non basta parlare con i giovani.
Occorre ascoltare soprattutto, ciò che non viene detto.
E forse è proprio quando un adolescente o un giovane adulto appare “perfetto”, che arriva il momento di porsi le domande più pressanti:
Che cosa prova realmente? Quali paure, insicurezze o desideri non riesce a condividere? Come posso permettergli di mostrarsi vulnerabile, di ammettere che non tutto è perfetto, che ci sono paure, fragilità, dolori da affrontare?
La vera forza non risiede nell’apparente perfezione, ma nella capacità di accettare le proprie crepe.
Come diceva Leonard Cohen: “C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce”.
È compito di chi educa – genitori, insegnanti, amici – aiutare i giovani a riconoscere e accettare le proprie crepe, perché è lì che si cela la loro umanità.