Tanti anni fa lessi una storia sul pavone che mi affascinò molto: la leggenda narrava che il pavone, per sviluppare i mirabili colori della coda, ingerisse veleni ed altre sostanze tossiche.
Mi sembrò una suggestiva metafora sull’energia del potere trasformativo.
A volte però le suggestioni ci allontanano dalla verità, specie in un’epoca di riflettori artificiali e scintillanti chimere.
Chi mi conosce sa quanto io sia disinteressato ai social, pur attribuendogli un qualche connotato positivo, perchè usati in modo intelligente possono dare impulso ad un business, o essere una strada attraverso cui esprimere il lato più ironico e goliardico di sé generalmente represso nella vita di tutti i giorni.
Inoltre offrono l’occasione di riconnettersi con persone incontrate in “vite precedenti”: io stesso ho potuto ritrovare un commilitone del corso ufficiali a cui ero molto affezionato.
Ma è evidente che il sistema presenti delle storture, che magari approfondirò in un successivo articolo, perchè adesso voglio parlare del pavone.
E di bias cognitivi.
Di cosa si tratta?
Si tratta di scorciatoie mentali usate dal nostro cervello per semplificare la realtà, che a volte diventano delle vere e proprie distorsioni cognitive, che si traducono in pregiudizi astratti e inefficaci.
Gli studiosi ne hanno individuati più di 100, tra cui anche la “self-enanching transmission” o bias del pavone.
Il pavone, nel regno animale, è sinonimo di vanità per il suo modo di ostentare il piumaggio nell’atto del corteggiamento, ed anche di inganno perchè si ritiene che sia in grado di fingere versi di accoppiamento per farsi credere più esperto degli altri maschi.
In psicologia, il bias del pavone affonda le radici su una tendenza comune negli esseri umani, che però in alcune persone tende ad irrigidirsi: quella di essere portati a condividere soprattutto i propri successi.
In alcuni contesti, come quello professionale, presentare la parte migliore di sé può essere certamente utile, ma quando una persona deve sempre e comunque mostrarsi al top e nascondere ciò che di sé ritiene meno “vendibile” ecco che questo può diventare un problema.
Si arriva a credere che per essere accettati sia necessario mostrarsi sempre interessanti e pervasi da emozioni positive.
E tutto questo, anche se può sembrare a “costo zero”, in realtà non lo è perchè alimenta una faticosa spirale dove il reale rincorre il virtuale, senza tenerne mai il passo, con possibile aggravio di sensazioni di ansia e frustrazione date dall’intima consapevolezza di tale scollamento, e dal disagio di affrontare le persone dal vivo e senza filtri.
Alcuni mesi fa girovagando in rete ho trovato un video di forte impatto, il quale spiega il bias del pavone meglio di 1000 parole:
Siamo davvero certi che la vita dei nostri vicini virtuali, che magari per contrasto ci ha fatto percepire la nostra piatta ed insulsa, sia cosi’ intensa e appassionata? E se la realtà fosse diversa?
Per restare ad altezze ornitologiche, pensiamo agli stormi di uccelli, a quelli stupefacenti nugoli dalle forme deliziosamente erratiche; secondo gli studiosi, quei movimenti non sono cosi’ erratici, perchè dovuti al fatto che ognuno, in base alla posizione gerarchica, lotta per occupare le posizioni interne, più al sicuro dai predatori.
Forse tutte le cose, viste da molto vicino, perdono il loro incanto.